Il ritiro nel tennis amatoriale, esiste un momento giusto per "appendere la racchetta al chiodo"?
Quando ci si riferisce ai più grandi campioni dello sport si parla spesso di ritiro, ovvero: quand'è il momento più giusto per lasciare? Ci sono sportivi che lasciano nel momento del loro apice (vedi Pete Sampras, o Flavia Pennetta), altri che invece accettano di proseguire nonostante il fisiologico calo dovuto al tempo che passa, e se ne vanno quando sono solo lontani parenti dei campioni che abbiamo conosciuto (penso a Francesca Schiavone, ma anche a tanti ex grandi calciatori confinati in squadre minori). Nell'uno o nell'altro caso, sono scelte comunque rispettabili e credo dipendano dal modo in cui uno vive lo sport e il suo lavoro, oppure dall'incapacità di smettere… Mi chiedo se un ragionamento del genere sia opportuno da fare anche per un tennista "amatoriale", tipo un 3a e 4a categoria, come me. Mi spiego. E' vero che per uno di noi il tennis si deve adeguare ai ritmi di vita (es. lavoro, famiglia, impegni) e dunque la sua programmazione è molto più casuale. Ma sarebbe ipocrita negare che il tennis non sia una parte fondamentale della nostra vita: molti di noi fanno attività da 10, 20 o 30 anni, dunque smettere di giocare è comunque un piccolo o grande trauma. Qual'è l'approccio migliore di fronte a tutto ciò, e in linea generale, a livello agonistico, quand'è il momento giusto per attendere la racchetta al chiodo?" Alecos, Empoli
L'argomento esula dai soliti motivi per cui mi viene richiesto l'intervento, ma non è fuori luogo, come qualcuno potrebbe pensare. Anche in questo caso il mio approccio parte da quelle che sono le emozioni che giustificano e motivano le scelte di vita di ognuno di noi.
Parliamo, in questa occasione, della decisione, da parte di un tennista, di interrompere l'attività, un'attività che lo ha impegnato e per la quale l'individuo ha deciso di operare delle scelte.
Certo, per un campione lasciare all'apice della carriera, nel momento di successo, è una decisione che consente di lasciare un bel ricordo, un'immagine positiva, sorridente.
Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di andare via nell'indifferenza assoluta. Questo, sia chiaro, vale nel mondo sportivo ma anche nel quotidiano. Parlando di campioni, di professionisti, non dobbiamo dimenticare che parliamo di persone che fanno dello sport il loro lavoro, la loro quotidianità, il loro impegno giornaliero, e che, pur trattandosi di sport, di divertimento, costituisce comunque un impegno spesso oneroso dal punto di vista fisico e mentale, e stressante per il continuo girovagare. Uno dei motivi di abbandono potrebbe essere quindi una sorta di "stanchezza" nel proseguire con questa routine.
A livello più "nostrano" il discorso cambia notevolmente: il motivo per cui noi "umani", appassionati, pratichiamo lo sport è fondamentalmente legato alla passione, all'ambizione di ottenere risultati, commisurati al tempo che possiamo dedicare.
In ogni caso, sia per gli uni che per gli altri, gli stimoli e le motivazioni sono assolutamente fondamentali per accettare i sacrifici e le inevitabili rinunce. Nel caso di campioni, di persone che per tutta la vita hanno organizzato la propria giornata in funzione della prestazione e della forma fisica, decidere di smettere significa anche decidere di dare un taglio netto ad un ritmo quotidiano che fino ad ora si è dimostrato incalzante, coinvolgente emotivamente, impegnativo, ma che si suppone abbia riservato anche delle soddisfazioni.
Per giocatori non professionisti, il discorso è chiaramente differente: gioca comunque un ruolo importante la passione; la difficoltà nel prendere una decisione del genere nasce in virtù di quanto questa passione e l'integrità fisica riescano a condizionare la propria vita, dovendo coordinare i diversi impegni quotidiani legati al lavoro e alla famiglia. Il bello del mondo dello sport è che tutto ruota fondamentalmente intorno alla passione, alle emozioni che riusciamo a suscitare e a recepire nel momento in cui pratichiamo, per un qualunque motivo, il nostro sport; altrimenti male si spiegherebbe la nostra predisposizione a sopportare impegni fisici, mentali, sociali, a volte anche in condizioni non sempre favorevoli.
Alla luce di tutte queste considerazioni, ne deriva che, finché le emozioni che riusciamo a ricavare dal tennis e da tutto quello che il tennis comporta (dallo sport in generale) riescono a giustificare sacrifici e rinunce, non ci dovrebbero essere motivi per cui abbandonare la pratica del nostro sport. Mi permetto però di fare anche notare che è fondamentale analizzare le diverse situazioni, soppesare le decisioni, stabilire sempre degli obbiettivi e avere la capacità e la serenità di modularli e aggiornarli rispetto alle condizioni, in continuo cambiamento, che ci si presentano. La decisione di abbandonare uno sport, a mio avviso, deve dunque passare attraverso un'attenta analisi delle condizioni che si manifestano (in termini di disponibilità al sacrificio e di motivazione). Solo così, ritengo, si possa essere in grado di stabilire, in maniera equilibrata, se smettere o proseguire, prevedendo, sia nel caso di abbandono che di prosecuzione dell'attività, nuovi obbiettivi, altrettanto interessanti in grado di giustificare l'una o l'altra scelta, e che consentano eventualmente di restare comunque legati ad un ambiente familiare da cui risulterebbe comunque difficile estraniarsi immediatamente.
Alla prossima!
Giuseppe Giordano
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