IL BRACCIO E LA MENTE


La differenza nell'approccio mentale tra allenamento e match. L'orientamento al compito e l'orientamento all'ego

Ciao. sono un tennista amatore di 38 anni con una grandissima passione. da sempre gioco nel mio circolo, una volta a settimana con il maestro e poi con altri amici. Da un paio d'anni ho iniziato a partecipare a tornei Fit nella mia zona. Devo dire mi diverto molto anche se i risultati non sono sempre buoni. La cosa che mi ha fatto effetto è che nonostante sia piuttosto allenato (faccio anche mezze maratone) arrivo alla fine dei match di torneo morto…fisicamente e psicologicamente. Ho dolori alle gambe e alla spalla e spesso mal di testa. La cosa strana è che non ho molte aspettative. Gioco per divertirmi, e la stessa ora di torneo giocata come allenamento non mi da quasi mai strascichi. Secondo te c'è una spiegazione mentale e cosa potrei fare?

Il caso è abbastanza particolare e presupporrebbe una più approfondita conoscenza del soggetto (che chiamerò Mario) e delle circostanze nelle quali si realizzano gli avvenimenti descritti. Mi permetto di fare una premessa: ognuno di noi ha un modo di affrontare una determinata situazione in maniera personale ma fondamentalmente si è soliti riconoscere due atteggiamenti essenziali: l'orientamento al compito e l'orientamento all'ego. Nel primo caso l'individuo tende a svolgere il "compito", pensando e concentrandosi sull'aspetto tecnico (per esempio nell'ambito tennistico la realizzazione del gesto del colpo), predisponendosi ad eseguire il colpo nella maniera didatticamente e tecnicamente perfetta, indipendentemente dal risultato "numerico", ma con l'obiettivo di esprimere il meglio di sé. Chi, invece, è predisposto al proprio io, tenderà ad ottenere il massimo risultato, a vincere l'incontro, in maniera tale da dimostrare la propria supremazia, indipendentemente dallo stile e dalla tecnica. Questo non vuol certamente dire che chi ha propensione all'ego non abbia necessariamente dei bei colpi o uno stile invidiabile.
Il motivo di questa mia premessa è legata al "sospetto" che il nostro Mario, protagonista di queste partite così estenuanti, vada in un certo senso inquadrato come soggetto "orientato al compito". Questo comporta che, per lui, anche una partita senza alcun significato dal punto di vista del risultato, produce comunque una tensione a carattere nervoso (e poi ne vedremo il motivo), per la preoccupazione di dover realizzare il proprio compito. Partiamo dal presupposto che ogni tipo di tensione nervosa provoca comunque una tensione a livello muscolare e ogni tensione muscolare presuppone un lavoro "di contrasto" muscolare che causa un dispendio di energie. Nel caso specifico, supposto che il nostro Mario possa essere identificato come individuo "orientato al compito", durante i suoi incontri, per lui poco stressanti dal punto di vista del risultato, subirà comunque una tensione nervosa, dovuta al raggiungimento del "compito", che porta ad un irrigidimento muscolare che, a sua volta, richiede un notevole dispendio di energie al fine di rendere le proprie leve morbide e disponibili al gesto tecnico da realizzare. Questo porta ad una stanchezza che il nostro Mario riscontra al termine dell'incontro.
Ma Mario mi potrebbe chiedere: "Come mai questo succede in incontri ufficiali e mai nelle partite con gli amici o nell'allenamento con il Maestro?" Il desiderio di realizzare il gesto tecnico, il "compito" a cui è orientato Mario, in situazioni familiari, abituali, quali quelle della partita con amici o l'allenamento con il maestro, è routinario e comunque si realizza in una situazione in cui il confronto è con persone conosciute, una situazione nella quale il soggetto può permettersi il lusso di sbagliare e riconoscere l'errore, che interpreta e giustifica in maniera "interiore". In occasione, invece, di un incontro con persone sconosciute, in una situazione insolita, davanti a un pubblico sconosciuto, Mario vive una condizione di stress per il fatto che il suo gesto tecnico può essere giudicato dall'esterno, da queste persone che non lo conoscono. Ciò comporta l'assillo (inconscio), e non più il semplice desiderio, di Mario, di realizzare il proprio compito, preoccupato che questo possa essere motivo di critica. E da qui la tensione mentale.
Per ovviare a questi inconvenienti, può risultare utile crearsi delle condizioni per cui, ammettendo comunque la proiezione al compito, diventa importante lavorare sulla consapevolezza che la verifica del colpo "giusto" possa effettuarla direttamente io, sulla base delle sensazioni che il colpo mi suscita, situazione che io e soltanto io posso emotivamente provare, escludendo così il giudizio altrui. Il passaggio successivo, sarà, è auspicabile, che, oltre alla sensazione suscitata dal colpo, una volta entrato in forma e quindi una volta trovata la giusta fiducia nei miei colpi, legata alla capacità di ripeterli quasi meccanicamente, io possa imparare a verificare anche il successo legato direttamente alla conquista del punto, rivolgendo così la mia attenzione alla tattica e alla vittoria. Mi permetto di concludere facendo notare che quanto descritto finora non è in contrasto con quanto affermato da Mario relativamente al suo stato di forma che lo porta a non avvertire la stessa stanchezza al termine delle mezze maratone. Il tutto dipende dal fatto che il maratoneta affronta una situazione diversa dal tennista per due motivi fondamentali: il primo è che il pubblico della maratona non ha occhi solo per il singolo concorrente (come Mario invece può verificare in un incontro di tennis), ma guarda tutti i partecipanti, senza soffermarsi ad approfondimenti che possano preoccupare l'atleta orientato al proprio compito. Il secondo è che comunque il gesto atletico del maratoneta è abbastanza continuo e ripetitivo, per cui una volta messo in moto il meccanismo, le variazioni a cui può andare incontro sono limitate, a differenza del tennista che deve operare continue modifiche a seconda delle situazioni che la partita porta ad affrontare. L'interpretazione delle situazioni richieste al maratoneta e al tennista, e la conseguente reazione alle stesse, risultano assolutamente differenti e richiedono una predisposizione fisica e mentale totalmente diversa. La realizzazione del gesto atletico e del compito avviene in maniera più "serena" per il maratoneta, a differenza di quanto viene richiesto al tennista che deve essere estremamente reattivo per contrastare le situazioni tattiche e tecniche che l'avversario propone. Per questo motivo lo stress dovuto alla ricerca del gesto durante la corsa lascia più tranquillo Mario che può correre in maniera serena la sua mezza maratona, subendo uno stress mentale e fisico certamente inferiore.

Giuseppe Giordano

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